lunedì 29 settembre 2014

Arte e Follia nel cuore della Sicilia

Siamo nel cuore della Sicilia occidentale, in una rovente giornata di fine settembre.

Per arrivare a Gibellina attraversiamo strade deserte e assolate, campagne bruciate dal sole dove il giallo delle stoppie è interrotto soltanto da qualche solitario fiore di agave e dai colori sgargianti dei fichi d’india carichi di frutti. Lo scirocco porta con sé un caldo denso, carico di umidità.

È praticamente impossibile preparare qualcuno alla visita che ci aspetta. Sono luoghi esclusi dai classici itinerari turistici e spesso neanche gli autisti dei pulmann, pur essendo siciliani, sanno dove stiamo andando. Ma soprattutto non capiscono perchè ci andiamo…

La vista che compare è un vero e proprio pugno nello stomaco. Una collina ricoperta di cemento. 

La campagna della Valle del Belìce.

Ma non si tratta del solito cemento figlio dell'abusivismo edilizio. è un cemento "artistico".
Un “sudario” ha ricoperto le rovine devastate da un terribile terremoto che, nella notte del 14 gennaio 1968, ha letteralmente cancellato dalla faccia della terra 5 paesi, ha tolto la vita a 400 persone e ne ha lasciate 70000 senza una casa.

Il Grande Cretto di Alberto Burri,


L’autore dell’opera è Alberto Burri, un artista che di certo conosce bene il dolore. Un uomo che ha scoperto la pittura a seguito di una tragica esperienza di vita. Iniziò infatti a dipingere nel campo di prigionia dove fu portato dopo essere stato catturato dagli inglesi in Tunisia durante la Seconda Guerra Mondiale.

Tra il 1985 e il 1989 eseguì l’opera chiamata il Grande Cretto su commissione dell’allora sindaco del paese, Ludovico Corrao. La politica aveva deciso, con buona pace degli abitanti che ancora piangevano i loro morti e le loro case. 
Il paese “vecchio” sarebbe stato ricoperto da 95000 metri quadrati di cemento e trasformato in una delle opere di arte contemporanea più estese del mondo, e il paese “nuovo” sarebbe stato ricostruito a una ventina di chilometri di distanza dalla sede originaria.

Camminiamo sgomenti per le vie fatte di cemento e silenzio. Ognuno perso nei suoi pensieri.

Le vie che solcano il Grande Cretto.


Una ruspa arranca nella canicola del giorno. 
In vista del centenario della nascita di Burri l’opera sta per essere completata con l’aggiunta dei 30000 metri quadrati che mancavano. 
Nessuno di noi trova le parole e forse neanche i pensieri per esprimere quello che vede, e in ogni caso non sono le classiche reazioni davanti a un monumento. Un cane ci precede, felice di vedere qualche faccia nuova.

Riprendiamo la strada e ci spostiamo a Gibellina Nuova. Anche qui la ricostruzione fu affidata ad artisti del calibro di Pomodoro, Melotti, Consagra, Quaroni, Schifano, Cascella, Paladino e Staccioli, praticamente il gotha dell'arte contemporanea italiana.

A dispetto delle buone intenzioni le conseguenze culturali e antropologiche del progetto furono devastanti, e di fronte ad esse le conseguenze “artistiche” non potevano che passare in secondo piano.

Anche qui regna il deserto e il silenzio. Qualche sguardo da dietro una tenda, qualche rara macchina e qualche cane che ci segue. Il paesaggio è surreale.

La piazza di Gibellina Nuova.


Anche la chiesa è chiusa. Un cartello attaccato alla porta dice che sono andati a Lourdes. Ma chi? Una delegazione parrocchiale o tutto il paese?


La chiesa di Gibellina Nuova.


Non posso e non voglio entrare nel merito di una storia tutta siciliana che portò alla costruzione di “un agglomerato di utopie”, una storia dalla quale, come scrive Roberto Alajmo, fine osservatore della cultura siciliana, “come spesso succede in Sicilia, da un disastro, il terremoto, è conseguito un disastro ancora maggiore: la ricostruzione”.

Quello che riesco a pensare è che forse, in qualunque altra parte del mondo, questo folle progetto sarebbe diventato un’occasione di rinascita, culturale ed economica. 
Ma non qui purtroppo. 
Non qui dove tutto è lasciato al caso. 
Non qui dove chi ci ha guadagnato, come al solito, è stata la mafia che possedeva i terreni dove il paese è stato ricostruito. 
Non qui dove il dolore non è mai stato elaborato e trasformato in una speranza. 
Non qui dove ancora oggi sembra che niente sia destinato a cambiare, come la profezia del Gattopardo Tomasi di Lampedusa aveva predetto.


L'unica cosa che posso fare è continuare a far conoscere questo posto sospeso nel tempo e nello spazio. Continuare a scioccare i miei compagni di viaggio con qualcosa che è difficile da raccontare ma che forse è ancora più difficile da capire.
Non me ne vogliate. Forse un giorno riuscirò a sciogliere il groviglio di emozioni che mi blocca stomaco, cuore e cervello quando arrivo li, e magari riuscirò a spiegarvelo.



Contributo di Alessandro Fichera